Dostoevsky. Il giocatore (Italian, Игрок)
Capitolo 13

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Capitolo 13

E' passato ormai quasi un mese da quando non ho più toccato queste mie note, iniziate sotto l'influsso di impressioni forti sì, ma disordinate. La catastrofe, la cui imminenza avevo allora previsto, si abbatté realmente, ma cento volte più violenta e inaspettata di quanto io non pensassi. E' stata una cosa strana, scandalosa e addirittura tragica, almeno per me. Mi sono capitati alcuni casi quasi miracolosi; così, almeno, mi sembrano tuttora anche se, a considerarli da un altro punto di vista e, soprattutto, giudicando dal vortice in cui allora mi aggiravo, essi erano forse soltanto non del tutto comuni. Ma per me la cosa più miracolosa è il modo con cui io mi sono comportato in tutti quegli avvenimenti. Non riesco ancora oggi a capire me stesso! E tutto è volato via come un sogno; anche la mia passione - e sì che era intensa e sincera - dove mai è andata a finire? Davvero, a volte mi balena quest'idea: "Ma non sono forse impazzito allora e non sono stato tutto questo tempo in qualche manicomio dove forse mi trovo ancora oggi, così che tutto ciò mi è sembrato e anche adesso mi sembra soltanto?" Ho raccolto e riletto i miei foglietti. (Chi sa, forse per convincermi di non averli scritti in un manicomio?) Ora sono solo soletto. L'autunno si avvicina, le foglie ingialliscono. Me ne sto in questa triste cittadina (oh, come sono tristi le cittadine tedesche!) e, invece di riflettere sul passo che sto per compiere, vivo sotto l'influsso di sensazioni appena spente, di ricordi freschi, sotto l'influsso di tutto il fresco turbine che allora mi ha trascinato in quel vortice e che di nuovo mi ha scagliato fuori, chi sa dove. Mi sembra, ogni tanto, di aggirarmi ancora in quello stesso turbine e che da un momento all'altro si scatenerà un'altra volta la tempesta che mi afferrerà, passandomi accanto, con la sua ala, e io uscirò di nuovo dall'ordine e dal senso della misura e girerò, girerò, girerò...

ò in qualche posto e smetterò di girare se darò a me stesso, per quanto possibile, esatto conto di tutto quello che è successo in questo mese. La penna mi attrae di nuovo e spesso, la sera, non so proprio che cosa fare. Strano, pur di occuparmi in qualche modo, prendo nella locale, cattiva biblioteca, i romanzi di Paul de Kock (in traduzione tedesca) che quasi non posso soffrire, ma li leggo, e mi stupisco di me stesso: è come se avessi paura che un libro serio o qualsiasi seria occupazione potesse spezzare l'incanto di ciò che è appena passato. Mi è proprio così caro quel brutto sogno con tutte le impressioni rimastemi, da temere persino che, sfiorandolo con qualcosa di nuovo debba dissolversi come fumo? Mi è dunque così caro tutto questo? Sì, certamente mi è caro, e forse anche tra quarant'anni lo ricorderò...

ì mi metto a scrivere. Del resto, tutto si può raccontare ora, in parte, anche più brevemente: le impressioni non sono più quelle...

Per prima cosa, concludiamo il discorso sulla nonna. Il giorno dopo, ella perse tutto, definitivamente. Così doveva accadere: chi, tra le persone come lei, capita una volta su quella strada, è come se scivolasse in slitta da una china nevosa, sempre più in fretta, sempre più in fretta... Giocò tutto il giorno, fino alle otto di sera; io non fui presente al suo gioco e so soltanto quello che ho sentito dire.

Potapytch rimase di guardia vicino a lei al Casinò per tutta la giornata. I polaccucci che guidavano la nonna si allontanarono più volte durante il giorno. Ella iniziò con lo scacciare il polacco del giorno prima, quello che aveva tirato per i capelli, e ne prese un altro, il quale, però, risultò quasi peggiore del primo. Scacciato anche questo e ripreso il primo - che non si era allontanato e durante tutto il tempo dell'esilio era rimasto sempre lì dietro la poltrona sporgendo continuamente avanti la testa - si lasciò prendere da vera disperazione. Il secondo polacco scacciato non voleva andarsene neppure lui, a nessun costo; uno si sistemò a destra, l'altro a sinistra. Durante tutto il tempo non fecero che litigare e scambiarsi ingiurie per le puntate e le mosse; si dicevano a vicenda lajdaki (1) e altri complimenti polacchi, poi si riappacificavano, gettavano via il denaro senza alcun ordine, prendevano decisioni a casaccio. Attaccata di nuovo lite, essi puntavano ognuno dalla propria parte, uno, per esempio, sul rosso e l'altro sul nero. Finì che stordirono e confusero tanto la nonna che lei, quasi con le lacrime agli occhi, si rivolse al "croupier", un vecchietto, pregandolo di difenderla e di scacciarli. Infatti furono subito mandati via, nonostante le loro grida e le loro proteste; strillavano tutti e due insieme, e cercavano di dimostrare che la nonna era in debito verso di loro, che li aveva imbrogliati, che aveva agito nei loro riguardi in modo disonesto e basso. L'infelice Potapytch mi raccontò tutto questo con le lacrime agli occhi la sera stessa della perdita, e lamentandosi che essi si fossero riempite le tasche di denaro, assicurava di aver visto con i suoi occhi come rubavano senza scrupolo e come ogni minuto si mettevano quattrini in tasca. Se uno, per esempio, otteneva dalla nonna cinque federici per le sue fatiche, subito li puntava alla roulette, vicino alla puntata della nonna. La nonna vinceva e lui gridava che a vincere era stata la sua puntata e che quella della nonna aveva perso. Quando li stavano scacciando, Potapytch si fece avanti e riferì che essi avevano le tasche piene d'oro. La nonna pregò subito il croupier di intervenire e, per quanto i due polaccucci gridassero (come due galli afferrati di sorpresa) arrivò la polizia e subito le loro tasche furono vuotate a vantaggio della nonna. La nonna, fino a che non ebbe perso tutto godette per l'intera giornata, presso i "croupiers" e presso i dirigenti del Casinò, di una palese autorità. A poco a poco la sua fama si era diffusa per la città. Tutti i frequentatori delle terme di tutte le nazioni, quelli comuni e quelli più importanti, accorrevano a vedere "une vieille comtesse russe tombée en enfance" (2) che aveva perduto "parecchi milioni".

perfettamente in russo, vestito da gentiluomo sebbene un po' somigliante a un lacchè, con un enorme paio di baffi e pieno di boria. Anch'egli baciò "i piedini della pani", ma verso la gente che era intorno si comportava in modo insolente, impartendo disposizioni in tono dispotico; in una parola, prese immediatamente un atteggiamento non da servo, ma da padrone della nonna. Continuamente, a ogni mossa, si rivolgeva a lei e giurava con i più terribili giuramenti che era anche lui un 'onorato' pan e che non avrebbe preso nemmeno una copeca del denaro della nonna. E ripeteva così spesso tali giuramenti che quella finì con lo smarrirsi del tutto. Ma poiché pare che, all'inizio, questo pan avesse corretto il suo giuoco e avesse incominciato a vincere, la nonna stessa non poteva più staccarsene. Un'ora più tardi i due piccoli polacchi di prima che erano stati allontanati dal Casinò riapparvero dietro la sedia della nonna, rinnovando l'offerta dei loro servigi, se non altro come galoppini. Potapytch giurava che "l'onorato pan" scambiava con i due strizzatine d'occhio e passava persino qualcosa nelle loro mani. Poiché la nonna non aveva pranzato e non aveva quasi mai lasciato la poltrona, uno dei polacchi si rese effettivamente utile: corse nella sala da pranzo del Casinò e le portò prima una tazza di brodo e poi anche del tè Del resto, correvano tutti e due. Ma verso la fine della giornata, quando a tutti era ormai chiaro che la nonna perdeva il suo ultimo biglietto di banca, dietro la sua sedia stavano ormai sei polacchini, mai visti né conosciuti prima. Quando poi la nonna stava perdendo le sue ultime monete, tutti loro non solo non la ascoltavano più, ma neanche le badavano; si spingevano al di sopra della sua testa per arrivare al tavolo, prendevano il denaro, ne disponevano e lo puntavano, discutevano e gridavano intrattenendosi amichevolmente con "l'onorato pan" che sembrava si fosse addirittura dimenticato dell'esistenza della nonna. Persino quando la nonna, dopo aver definitivamente perso tutto, si preparava verso le otto di sera a tornare all'albergo, tre o quattro piccoli polacchi non si decidevano ancora a lasciarla e correvano intorno alla poltrona gridando a tutta forza e assicuravano, parlando velocissimamente, che la nonna li aveva ingannati e che doveva loro qualche cosa. E così arrivarono fino all'albergo da dove, finalmente, furono cacciati a spintoni.

Secondo il conto di Potapytch, la nonna aveva perso in quel giorno circa novantamila rubli, oltre al denaro perso il giorno prima. Tutti i titoli - obbligazioni al cinque per cento, prestiti interni, azioni - che aveva portato con sé, li aveva cambiati uno dopo l'altro. Io mi meravigliavo, pensando come avesse potuto resistere quelle sette o otto ore seduta in poltrona e quasi senza spostarsi dal tavolo, ma Potapytch raccontò che per ben tre volte aveva effettivamente cominciato a vincere forte e, trascinata dalla speranza, non aveva più potuto allontanarsi. Del resto, i giocatori sanno benissimo come si possa restare magari una giornata intera allo stesso posto giocando a carte, senza girare gli occhi né a destra, né a sinistra.

à dalla mattina, prima delle undici, quando la nonna era ancora in casa, i nostri, cioè il generale e De-Grieux, si erano decisi al passo estremo. Saputo che la nonna non voleva più partire ma che, anzi, si preparava ad andare al Casinò, si presentarono da lei in conclave (a eccezione di Polina) per parlarle definitivamente e anche sinceramente. Il generale, trepidante e sentendosi quasi venir meno in vista delle conseguenze per lui terribili, esagerò persino: dopo mezz'ora di preghiere e di suppliche e dopo aver francamente confessato tutto, cioè i debiti e anche la passione per mademoiselle Blanche (egli si era smarrito completamente), il generale dico, prese di colpo un tono minaccioso e cominciò a inveire contro la nonna e a pestare i piedi, gridando che lei disonorava la famiglia, che era diventata lo scandalo di tutta la città e arrivò infine a queste parole: "Voi disonorate il nome russo, signora, e per questo c'è la polizia!"

La nonna lo cacciò via con il bastone (un autentico bastone) Il generale e De-Grieux si consultarono ancora due o tre volte quella mattina, e precisamente su questo: non sarebbe stato proprio possibile far intervenire la polizia? Dire che, ecco, una disgraziata, una rispettabile vecchia era impazzita, stava perdendo al gioco gli ultimi soldi eccetera? In una parola, non era possibile ottenere una tutela o una interdizione? De-Grieux si limitava a stringersi nelle spalle e rideva in faccia al generale che ormai non sapeva più quello che diceva e correva su e giù per lo studio. Infine De-Grieux fece un gesto di rinuncia e scomparve chi sa dove. A sera si seppe che aveva lasciato l'albergo definitivamente, dopo aver avuto un colloquio risolutivo e misterioso con mademoiselle Blanche. Per quanto riguarda mademoiselle Blanche lei, fin dal mattino, aveva preso dei provvedimenti decisivi: si era completamente liberata dal generale e non gli permetteva neppure più di presentarsi davanti a lei. Quando il generale le corse dietro al Casinò e la incontrò sottobraccio al principe, tanto lei quanto madame veuve Cominges finsero di non conoscerlo. E neppure il principe lo salutò. Per tutto quel giorno mademoiselle Blanche sondò e si lavorò il principe perché finalmente si dichiarasse. Ma ahimè!

ì che il principe era povero in canna e che contava proprio su di lei per avere quattrini in prestito contro cambiali da giocare alla roulette. Blanche, indignata, lo cacciò via e si chiuse nella sua camera.

La mattina di quello stesso giorno ero andato da mister Astley o, per meglio dire, lo avevo cercato, ma non ero riuscito in nessun modo a trovarlo. Non c'era né in casa, né al Casinò, né al parco. Quella volta non aveva pranzato nel suo albergo. Lo vidi a un tratto, verso le cinque, che dalla stazione ferroviaria andava verso l'albergo d'Angleterre. Camminava in fretta e vidi che era preoccupato sebbene fosse molto difficile scorgere sul suo viso segni di preoccupazione o di qualsiasi turbamento. Mi tese cordialmente la mano con la sua abituale esclamazione: "Ah!" ma senza fermarsi e continuando, a passi piuttosto frettolosi, il suo cammino. Mi attaccai a lui, ma egli seppe rispondermi in un modo tale che non riuscii a chiedergli niente. Inoltre, chi sa perché, sentivo un tremendo senso di vergogna a parlare di Polina; e neppure lui mi disse, a quel proposito, una parola. Gli raccontai della nonna; mi ascoltò attento e serio e si strinse nelle spalle. "Perderà tutto!" gli dissi.

"Oh, certo!" mi rispose. "Anche poco fa, quando io partivo, è andata a giocare, e perciò ero sicuro che sarebbe finita così. Se avrò tempo, andrò un attimo al Casinò a vedere, perché è una cosa curiosa..."

"Dove siete stato?" chiesi, sorpreso di non averglielo ancora domandato.

"Sono stato a Francoforte."

"Per affari?" "Sì, per affari."

Che cosa potevo chiedergli di più? Tuttavia continuavo a camminargli vicino, ma egli a un tratto svoltò nella strada dove sorgeva l'albergo Des Quatre Saisons, mi salutò con un cenno del capo e sparì. Tornando a casa, mi resi a poco a poco conto che, se anche avessi parlato con lui per due ore, non avrei saputo niente perché... non avevo niente da chiedergli! Già, proprio così. In nessun modo avrei ora potuto formulare la mia domanda.

Per tutto quel giorno Polina o passeggiò con i bambini e la bambinaia nel parco, o rimase in casa. Da un pezzo ormai lei evitava il generale e non parlava quasi mai con lui, almeno su argomenti seri. L'avevo notato già da un pezzo. Ma, sapendo in che situazione si trovasse quel giorno il generale, pensai che non avrebbe potuto evitarla, cioè che tra di loro sarebbe stata necessaria qualche importante spiegazione di carattere familiare. Però quando io, rientrando all'albergo dopo il mio colloquio con mister Astley, incontrai Polina con i bambini, il suo viso rifletteva la più serena tranquillità, come se tutte le tempeste familiari non l'avessero nemmeno sfiorata. Al mio saluto rispose con un cenno del capo. Entrai in camera mia pieno di stizza.

ù trovato con lei dopo l'incidente con il barore Wurmerhelm. Per di più facevo il sostenuto e mi davo delle arie ma, quanto più il tempo passava, tanto più ribolliva in me una vera indignazione. Anche se lei non mi amava affatto, non si poteva, mi sembra, calpestare così i miei sentimenti e accogliere con un simile disprezzo le mie confessioni! Lei sapeva che io l'amavo veramente; lo ammetteva e mi permetteva di parlarle così. In verità, tutto era cominciato tra di noi in modo alquanto strano. Qualche tempo prima, circa un due mesi, avevo notato che Polina voleva fare di me il suo amico, il suo confidente e che, in parte, ci si provava. Ma la cosa, chi sa perché, non aveva avuto allora buon esito e, in cambio, erano rimasti tra noi gli strani rapporti odierni; per questo appunto avevo preso a parlare così con lei. Ma se il mio amore le ripugnava, perché non proibirmi senz'altro di parlargliene? Non me lo vietava; a volte, anzi, mi induceva lei stessa a toccare quell'argomento e... naturalmente lo faceva per beffa. Lo so con certezza, perché avevo osservato molto bene che le faceva piacere, dopo avermi ascoltato e stuzzicato fino alla sofferenza, sconcertarmi improvvisamente con qualche uscita che rivelava il massimo disprezzo e la più grande indifferenza. Eppure sapeva benissimo che senza di lei io non potevo vivere. Ecco adesso erano passati tre giorni dall'incidente con il barone, e io non riuscivo più a sopportare la nostra separazione. Quando l'avevo incontrata poco fa vicino al Casinò, il cuore aveva preso a battermi con tanta violenza che ero impallidito. Eppure nemmeno lei avrebbe potuto cavarsela senza di me! Io le ero necessario; ma possibile, possibile che lo fossi soltanto come il buffone Balakirev (3)? Lei aveva un segreto: questo era chiaro! Il suo colloquio con la nonna mi aveva ferito dolorosamente il cuore. Eppure mille volte l'avevo invitata a essere sincera con me, e lei sapeva benissimo che io ero pronto a sacrificarle la mia testa. Ma lei se ne faceva gioco sempre, quasi con disprezzo e, invece del sacrificio della vita che io le offrivo, pretendeva da me delle gesta sul tipo di quelle con il barone! Non era forse una cosa disgustosa? Possibile che per lei tutto il mondo fosse racchiuso in quel francese? E mister Astley? A questo punto la cosa diventava incomprensibile e intanto, mio Dio, come mi tormentavo!

Arrivato a casa, in un impeto di rabbia, presi la penna e le scrissi quanto segue:

"Polina Aleksàndrovna, vedo chiaramente che è arrivato lo scioglimento che, è naturale, riguarderà anche voi. Per l'ultima volta vi ripeto: vi serve, oppure no, la mia testa? Se vi sarà utile per qualsiasi cosa, disponete di me; intanto io sono nella mia camera e, almeno per un bel pezzo, non me ne allontanerò. Se vi servirà, scrivetemi o fatemi chiamare."

Sigillai il biglietto e glielo mandai tramite il cameriere del mio piano, con l'ordine di consegnarlo personalmente. Non aspettavo risposta ma, dopo tre minuti, il cameriere tornò con la notizia che la signorina "aveva dato ordine di salutarmi".

ò, entrando, che egli stesse in mezzo alla stanza con le gambe larghe, la testa bassa e che parlasse tra sé e sé ad alta voce. Ma non appena mi vide si gettò verso di me quasi gridando, tanto che io, istintivamente, indietreggiai e quasi volli fuggire; ma egli mi prese per tutt'e due le mani e mi trascinò verso il divano, si mise a sedere, fece sedere me su una poltrona di fronte a lui e, senza lasciare le mie mani, con le labbra tremanti, le lacrime che gli brillavano tra le ciglia e con voce implorante mi disse:

"Alekséj Ivànovitch, salvatemi, salvatemi, abbiate pietà!"

Per un bel po' non riuscii a capire niente: lui parlava, parlava, parlava e continuava a ripetere: "Abbiate pietà! Abbiate pietà!" Finalmente indovinai che egli aspettava da me forse un consiglio o, per meglio dire, abbandonato da tutti, angosciato e triste, si era ricordato di me e mi aveva fatto chiamare solo per parlare, parlare, parlare...

é io andassi subito da mademoiselle Blanche a pregarla e a consigliarla di tornare a lui e di sposarlo.

"Ma via, generale" esclamai, "fino a oggi mademoiselle Blanche non si è neppure accorta di me. Che posso fare io?" Ma le obiezioni erano inutili: egli non capiva quello che gli si diceva. Si mise a parlare anche della nonna in modo del tutto sconclusionato: era sempre dell'idea di far chiamare la polizia "Da noi, da noi" cominciò a gridare, ribollendo all'improvviso di indignazione, "da noi, in uno stato bene organizzato dove esiste un'autorità, una vecchia così la metterebbero subito sotto tutela! Sì, egregio signore, sì..." continuava, cadendo di colpo in un tono di rimprovero, balzando in piedi e mettendosi a passeggiare per lo studio, "voi non sapevate ancora, egregio signore" fece, rivolgendosi a un immaginario egregio signore in un angolo, "e adesso lo sapete... sì... sì... che da noi simili vecchie le mettono al giogo, al giogo, sicuro... che il diavolo le porti!"

é, invece del telegramma, era arrivata la nonna e che ormai era evidente che egli non avrebbe avuto l'eredità. Gli sembrava che di tutto questo io non fossi affatto al corrente. Cominciai a parlare di De- Grieux, ma egli fece un gesto di disperazione:

"E' partito! Tutto quanto possiedo è ipotecato da lui: sono povero in canna! Di quei denari che portaste... di quei denari non so quanto è rimasto... mi sembra un settecento franchi e niente altro; è tutto lì e poi... non so, non so!"

"Ma come farete a pagare il conto dell'albergo?" gli chiesi io, spaventato. "E poi, che accadrà?" Egli mi guardò pensieroso, ma ebbi l'impressione che non capisse e addirittura non mi sentisse. Provai a parlargli di Polina Aleksàndrovna e dei bambini. Egli rispose alla svelta sì... sì... ma subito si rimise a parlare del principe, del fatto che Blanche ora sarebbe partita con lui e allora... allora... "Che mi resta da fare, Alekséj Ivànovitch?" si rivolse d'un tratto a me. "Ve lo giuro sul nome di Dio! Che cosa posso fare? Dite, non è ingratitudine, questa? Non è ingratitudine?" Infine si mise a piangere a dirotto.

tanto a dargli un'occhiata e, inoltre, parlai con il cameriere del piano, un ragazzo molto giudizioso, e mi promise che, da parte sua, lo avrebbe tenuto d'occhio.

Avevo appena lasciato il generale che comparve da me Potapytch a chiamarmi da parte della nonna. Erano le otto, e lei era appena tornata dal Casinò dopo l'ultima, definitiva perdita. Andai da lei: la vecchia era seduta in poltrona, evidentemente sfinita e sofferente. Marfa le stava porgendo una tazza di tè che le faceva bere quasi a forza. La voce e il tono della nonna erano decisamente cambiati.

"Buongiorno, bàtjushka Alekséj Ivànovitch" mi disse, chinando la testa con un'espressione grave, "scusate se vi ho disturbato ancora una volta, perdonate a una vecchia. Io, mio caro, ho lasciato tutto là, quasi centomila rubli. Avevi ragione, ieri, a non venire con me! Ora sono senza quattrini, non ho più un soldo. Non voglio aspettare oltre: alle nove e mezzo partirò. Ho mandato a chiamare mister Astley o come si chiama, per chiedergli tremila franchi per una settimana. Ebbene, convincilo tu a non pensare a chi sa che cosa e a non rifiutare. Io, ragazzo mio, sono ancora abbastanza ricca. Possiedo tre campagne e due case. E ho ancora del denaro: non l'avevo portato tutto con me. Questo lo dico, affinché egli non abbia dubbi di nessun genere... Ah, eccolo! Si vede che è una brava persona."

ò immediatamente tremila franchi contro una cambiale che la nonna firmò. Concluso l'affare, egli salutò e si affrettò a uscire.

"E ora vattene anche tu, Alekséj Ivànovitch. E' rimasta poco più di un'ora: voglio coricarmi. Mi fanno male le ossa. Non rimproverarmi, sono una vecchia stupida. Adesso non accuserò più i giovani di sventatezza, e anche quel disgraziato del vostro generale, commetterei peccato se lo accusassi... Ma denaro non gliene darò, come vorrebbe lui perché, secondo me, è troppo stupido; però io, vecchia stupida, non sono più intelligente di lui. E' proprio vero che Iddio è severo anche con i vecchi e punisce l'arroganza. Be', addio! Alzami, Marfusha!"

Io, però, volevo accompagnare la nonna. Inoltre ero in una specie di attesa: mi sembrava che da un momento all'altro dovesse succedere qualcosa. Non riuscivo a rimanere fermo in camera mia. Uscivo ogni tanto nel corridoio e andai persino un minuto fuori a passeggiare nel viale. La mia lettera a lei era chiara e decisiva, e l'attuale catastrofe senza dubbio definitiva. All'albergo sentii parlare della partenza di De-Grieux. Infine, se mi avesse respinto come amico, forse non mi avrebbe respinto come servo. Le ero necessario, magari anche soltanto per fare il galoppino: come no? Verso l'ora della partenza del treno, corsi alla stazione e feci salire la nonna. Presero tutti posto in uno scompartimento riservato, per famiglia.

"Ti ringrazio, bàtjushka, per la tua disinteressata simpatia," mi disse, accomiatandosi da me, "e ripeti a Praskòvja quello che le ho detto ieri: io l'aspetterò."

"Eh, bàtjushka, non c'è male!" mi rispose quella, in tono triste. Io, però, entrai lo stesso, ma sulla porta dello studio mi fermai stupefatto, mademoiselle Blanche e il generale ridevano allegramente insieme. La veuve Cominges stava anche lei lì, seduta sul divano. Il generale era evidentemente fuori di sé dalla gioia, balbettava una serie di stupidaggini, una dietro l'altra, e prorompeva in lunghe risate nervose che gli increspavano il viso in una enorme quantità di rughe, mentre gli occhi quasi scomparivano. Seppi però dalla stessa Blanche che lei, cacciato il principe e venuta a conoscenza delle lacrime del generale, aveva pensato di consolarlo ed era venuta a trovarlo. Ma non sapeva, il povero generale, che in quel minuto la sua sorte era già stata decisa e che Blanche aveva già cominciato a preparare i bagagli per partire l'indomani, con il primo treno del mattino, alla volta di Parigi.

Dopo essere rimasto un po' sulla soglia dello studio del generale, decisi di non entrare e mi allontanai non visto. Risalito in camera mia e aperta la porta, notai a un tratto, nella penombra, una figura, seduta su una sedia, in un angolo, vicino alla finestra. Essa non si alzò al mio apparire. Mi avvicinai rapidamente, guardai e... mi sentii mancare il respiro: era Polina!

Note:

2) "Una vecchia contessa russa rimbambita."

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